
#LETSGETBIRTHBACK
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Federica Lippi
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petizione
Alcune di noi del collettivo femminista sul parto (composto da madri che hanno subito la violenza del parto istituzionale e da altre donne interessate alla conoscenza e al recupero della complessità di questo momento) hanno deciso di portare avanti questo movimento non tanto pensando al «parto in casa» come obiettivo generalizzabile per la nostra realtà (in Italia di parto si muore tutt’ora, anche negli ospedali, e non ci è indifferente costringere le istituzioni mediche a confrontarsi con la nostra volontà di modificarle nel senso delle nostre esigenze e dei nostri bisogni), quanto perché ci sembra fondamentale fare riemergere tutta la positività del momento del parto: non più atto tecnico del medico ma atto creativo della donna. Questo significa il ribaltamento della nostra realtà. Il parto come si vive oggi negli ospedali/cliniche e certamente un’esperienza violenta e drammatica. La cosa più sconvolgente di cui non ci si rende conto subito è che il parto viene considerato oggi a tutti gli effetti una malattia, a cominciare dal momento in cui si entra in ospedale con tutti i rituali del clistere e della fasatura del pube, alla prigionia della sala travaglio lontana da ogni persona o cosa amica e famigliare, all’ attrezzo di tortura che è il «lettino» della sala parto. In questo rapporto con l’istituzione medica quasi sempre abbiamo delegato tutto all’ospedale/clinica e al ginecologo/tecnico, anche se l’istituzione non è mai in funzione della donna, dei suoi tempi, della sua ‘salute fisica e mentale. Questa delega deresponsabilizzante ci fa affidare completamente ai tecnici che, con l’alibi di una nostra minore sofferenza (del resto ancora da provare), fanno in realtà passare le esigenze dei loro tempi (farci partorire in «fretta» non significa di per sé farci soffrire meno), aumentandoci artificialmente le contrazioni con l’ossitocina e intervenendo poi con l’anestesia. Rifiutiamo la mistica del partorire con dolore ma siamo contro ad una scienza che, attraverso l’anestesia, mentre non toglie complessivamente il dolore (se non negli ultimi cinque minuti, quelli dell’espulsione, che sono i meno dolorosi), priva comunque la donna di un momento che è importante poter vivere fino in fondo con coscienza. L’istituzione medica ci espropria di un momento che può e deve essere creativo, partecipe, ricco d’emozioni; ci costringe a vivere in modo isolato ed individuale un momento in cui siamo più fragili e meno in grado di reagire alle violenze imposteci: l’istituzione medica ci isola e ci separa per avere più potere. Vogliamo ribellarci a tutto questo. L’espropriazione del corpo è il presupposto fondamentale della schiavitù della donna, come ogni altra forma di schiavitù; il potere maschile si è quindi sforzato da sempre di mantenere la donna in uno stato di e-straniamento dal suo corpo e dalla sua sessualità, uno stato di perpetuo conflitto con se stessa. La gravidanza e il parto non sfuggono a questa logica, in cui la donna viene constantemente negata come soggetto attivo. Il parto, nel sistema patriarcale, non può essere sperimentato e gestito dalla donna in prima persona, perché potrebbe trasformarsi in una pericolosa occasione di crescita e di responsabilizzazione, che la società maschile non può permettersi: la donna non può diventare mai completamente adulta, nemmeno quando, come durante il parto, è più direttamente coinvolta: il potere dei medici, approfittando della paura e della disinformazione delle donne, si assume quindi tutta la gestione e la responsabilità del parto. Per svuotare e svalutare ulteriormente questa esperienza importantissima, esiste tutta una serie di condizionamenti negativi radicati nel costume, nella religione, nella scienza, che tendono a relegare il parto al di fuori del sociale e, al limite, anche al di fuori dell’umano: l’ostetrica che ci tratta con disprezzo, l’isolamento da chi ci potrebbe dare un sostegno morale, il dolore «inevitabile», il trauma comportato da certe pratiche ostetriche, la separazione dal bambino subito dopo la nascita, tutte queste cose fanno sì che molte donne ricordino l’esperienza del parto come qualcosa di traumatico, angoscioso, umiliante, un’occasione in cui ci si è trovate ad essere oggetti isolati e passivi: il parto così diventa qualcosa da dimenticare, da rimuovere. Ma proprio su questo genere di rimozioni si fonda il potere maschile sulle donne: perciò è necessario recuperare la coscienza dei nostri bisogni fisici e psicologici, la comprensione dei processi fisiologici del nostro corpo, per trovare la strada di un modo nuovo di partorire, un modo che rispetti le nostre esigenze, i nostri tempi, il nostro corpo e quello del bambino.
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